I disturbi somatoformi
“Per dimostrare l’utilità clinica della concettualizzazione di certe malattie somatiche e psichiatriche come disturbi della regolazione degli affetti, cominceremo con il prendere in considerazione il problema estremamente comune, ma scarsamente compreso, di quei pazienti che richiedono cure per sintomi somatici persistenti ma senza presentare alcuna malattia chiaramente identificabile. Questi pazienti si rivolgono tipicamente dapprima al medico generico rappresentando il 10/30% delle consultazioni dei medici di famiglia (Kellner, 1990). Pazienti spesso incompresi, che vengono indirizzati verso specialisti e chirurghi con il risultato di eseguire esami del tutto inutili che sui costi del spese sistema sanitario (Bacon et al., 1994; Bass & Murphy, 1990; Shaw & Creed, 1991; Wikramesekera, 1989).
L’utilizzazione da parte di questi pazienti di servizi di ricovero e ambulatoriali è infatti nove volte superiore a quello della popolazione generale (Smith, Monson & Ray, 1986). Quando diviene evidente che una prima diagnosi medica adeguata può essere formulata per questi papersistenti, gli “enigmatici” sintomi somatici che si presentano sono di solito attribuiti alla somatizzazione, e si afferma che essi sono «funzionali» rinviando ad un disturbo psichiatrico sottostante.
Pazienti che vengono a volte catalogati negativamente come «somatizzatori cronici», «ipocondriaci», «abusatori di cure mediche» o «rottami medici», specialmente quando non reagiscono ai trattamenti medici e psichiatrici standard (Bass & Murphy, 1990). La conseguente impasse terapeutica lascia questi pazienti insoddisfatti rispetto alle cure che hanno ricevuto, cronicizzazione dei sintomi , minor funzionamento sociale e produttivo.
Storicamente per i pazienti con sintomi somatici inspiegabili veniva formulata una diagnosi di isteria, ipocondria, nevrastenia o melancolia (Lipowski, 1988)
Al giorno d’oggi questi pazienti vengono classificati come affetti da disturbo somatoforme, tranne nel caso in cui essi soddisfino i criteri di disturbo ansioso o depressivo.
Il DSM-III-R (APA, 1987) descrive quattro disturbi somatoformi:
- disturbi somatici dismorfici;
- disturbi da conversione;
- disturbi da somatizzazione;
- ipocondria e disturbi somatoformi dolorosi
Il DSM-III-R descrive inoltre due categorie residuali:
- disturbi somatoformi indifferenziati;
- disturbi somatoformi non specificati;
In queste due categorie ricadono quei pazienti i cui sintomi non corrispondono pienamente ad alcuno dei disturbi specifici.
Il DSM-IV (APA) ha mantenuto queste stesse categorie modificando leggermente i criteri che definiscono alcuni disturbi.
Diversi clinici e ricercatori hanno tuttavia osservato che questa classificazione «non corrisponde pienamente alla realtà clinica» (Kirmayer, Robbins & Paris, 1994). In particolare, i criteri del DSM sono troppo restrittivi, i diversi disturbi si sovrappongono nella pratica clinica e i pazienti con disturbi somatoformi indifferenziati o non specificati sono molto più comuni di quelli con disturbi distinti (Fink, 1993; Kirmayer et al., 1994; Lipowski, 1988).
Inoltre il requisito in base al quale i sintomi dei disturbi somatoformi non devono avere alcun corrispondente organico dimostrabile crea, di fatto, una confusione sulla classificazione dei disturbi fisiologici funzionali in quanto sembra meramente fondata sul “vuoto fisiologico”.
Tra questi ricordiamo ad esempio la sindrome del colon irritabile e la fibromialgia, che si ritiene siano influenzati dagli stati emotivi del paziente (Kellner, 1991, 1994; Kirmayer 1991b).
Anche se, in base all’evidenza empirica, sembra giustificato classificare i disturbi fisiologici funzionali e alcuni dei disturbi somatoformi come entità discrete (Kirmayer & Robbins, 1991b), secondo noi l’attenzione dovrebbe concentrarsi meno sulla classificazione e la fenomenologia e più sul tentativo di comprensione dei processi patologici alla base del disturbo somatico funzionale.
Dobbiamo quindi soffermarci sul come il concetto di regolazione affettiva e il costrutto dell’alessitimia possono contribuire ad una migliore comprensione della somatizzazione, aiutandoci a identificare trattamenti più efficaci per quei pazienti che soffrono di disturbi somatoformi.
La presenza di una malattia somatica che implica una modificazione dei tessuti non esclude la contemporanea esistenza di sintomi somatici funzionali.
Retroterra
Molte delle difficoltà che si incontrano nel cercare di comprendere la Patogenesi dei disturbi somatoformi derivano da un’ambiguità di fondo: il termine somatizzazione è utilizzato allo stesso tempo sia per indicare un processo, sia per indicare un sintomo o disturbo.
Il termine somatizzazione è stato coniato dallo psicoanalista viennese Wilhelm Stekel (1925): un processo nel quale una nevrosi radicata può esprimersi attraverso un disturbo fisico.
Stekel considerava la somatizzazione equivalente al concetto di conversione, introdotto da Breuer e Freud (1895) per spiegare lo sviluppo dei sintomi motori o sensoriali nell’isteria. Come la conversione, la somatizzazione rappresentava un meccanismo di difesa il cui ruolo era di mantenere il livello inconscio conflitti relativi a desideri pulsionali e ad affetti disforici associati, rendendo possibile allo stesso tempo la loro parziale espressione e gratificazione attraverso i sintomi somatici.
Come è stato osservato da Barsky e Klerman (1983) la somatizzazione e l’ipocondria forniscono un modo di deviare le pulsioni sessuali, aggressive o orali e, allo stesso tempo, una difesa contro il senso di colpa e la bassa autostima. Brown e Vaillant (1981), ad esempio, hanno messo in evidenza la trasformazione di impulsi aggressivi ed ostili in manifestazioni ipocondriache; fatti passati trovavano una parziale espressione attraverso le lamentele del paziente e il suo scaricare sugli altri la causa della propria sofferenza. Altri teorici della Psicoanalisi hanno concettualizzato i sintomi somatici e le lamentele ipocondriache come l’espressione di desideri pregenitali di cure, nutrimento, attenzioni, simpatia e contatto fisico. Si pensava che i sintomi somatici servissero al soggetto per proteggersi dalla consapevolezza di certe carenze della sua personalità e che avessero un ruolo di espiazione e di punizione per gli errori commessi nel passato e per il fatto di sentirsi interiormente cattivi. I sintomi somatici funzionali, come i sintomi psiconevrotici avrebbero sia funzioni sia motivazionali che difensive, apportando sia vantaggi primari che secondari.
Nel costruire queste formulazioni dei sintomi somatici funzionali la maggior parte dei teorici della psicoanalisi ha adottato la concezione di Freud (1917) dei sintomi isterici di conversione, trascurando però l’importante distinzione fatta da Freud stesso nel 1898 tra psiconevrosi e nevrosi attuali, per cui proponeva meccanismi eziologici differenti.
Mentre Freud pensava che le psiconevrosi (inclusa l’isteria) traessero origine dal conflitto psichico relativo a impulsi inconsci e fantasie che risalgono all’infanzia, le nevrosi attuali avevano per lui un’origine somatica, ed erano dunque prive di significato psicologico primario. Freud (1914) classificava la nevrosi d’ansia e la nevrastenia come nevrosi attuali, e aggiunse l’ipocondria alla lista più di un decennio dopo.
Anche se molti teorici contemporanei considerano la somatizzazione un tipo di comportamento patologico anormale piuttosto che un tipo di difesa inconscia, i loro tentativi di ridefinire il costrutto non sono riusciti a trascendere la visione dell’interazione mente-corpo in base alla quale i sintomi somatici inspiegabili da un punto di vista medico sono riconducibili ad un disagio psicologico sottostante.
Lipowski (1987), ad esempio, che è stato forse il primo ad affrontare la questione, ha definito la somatizzazione «una tendenza a esperire e comunicare il disagio psicologico sotto forma di sintomi fisici, e a richiedere cure mediche per questi sintomi». In modo simile Swartz e al. (1989) hanno definito la somatizzazione «un’espressione corporea o somatica del disagio psichico».
Anche la descrizione del DSM-III-R delle caratteristiche essenziali dei disturbi somatoformi include «evidenza o forte presunzione del fatto che i sintomi siano collegati a fattori o conflitti psicologici»
Questa concezione dei meccanismi o cause non è lontana dalle prime teorie psicogenetiche della somatizzazione, ed è ulteriormente promulgata da Wickramasekera (1989) che definisce i pazienti con tendenza alla somatizzazione come «persone che traducono conflitti psicosociali in disturbi somatici quali emicranie muscolari e vascolari croniche, coliche e dolori di schiena cronici».
Nella somatizzazione questi ricercatori includono l’evidenza di un disturbo psichiatrico insieme al fatto che il paziente si lamenta di un disturbo fisico.
Questa definizione è difettosa: essa infatti non considera «i numerosi pazienti che richiedono cure per sintomi somatici inesplicabili che non sono tuttavia accompagnati da sintomi psicologici evidenti» (Mayou, 1993, p. 70). Molti pazienti che soffrono di disturbi psicosomatici non solo non hanno al momento della consultazione problemi di ansia o depressione, ma non ne hanno mai sofferto nel corso di tutta la loro vita (Kirmayer & Robbins, 199la). Viste le problematiche implicazioni teoriche della maggior parte delle definizioni di somatizzazione, alcuni ricercatori consigliano di evitarne del tutto l’utilizzo del termine o di scegliere una definizione basata solo sulla presenza di uno o più disturbi somatici in assenza di malattie organiche dimostrabili, o comunque di disturbi “eccessivi” rispetto alla situazione clinica oggettiva (Kellner, 1990; Mayou, 1993).
Nel loro sforzo di formulare una definizione teorica e puramente descrittiva della somatizzazione, i teorici contemporanei hanno inavvertitamente resuscitato il concetto freudiano di nevrosi attuale, in cui ai sintomi somatici non è attribuita un’origine psicologica.
Anche se Freud (1898) sbagliava nell’attribuire le nevrosi attuali ad una eccessiva accumulazione o ad un drastico calo della libido (da cui risulterebbero rispettivamente la nevrosi D’ansia e la nevrastenia) o ad uno spostamento della libido da oggetti del mondo esterno ad una parte del corpo (come nell’ipocondria), è implicito nella sua teoria il concetto di disturbo dell’autoregolazione. L’idea semplicistica secondo la quale la libido mal regolata è causa diretta dei sintomi è stata da tempo abbandonata, ma il concetto di affetto disregolato offre un nuovo punto di vista sulla somatizzazione intravisto da MacAlpine (1952) più di quarant’anni fa nella sua descrizione della somatizzazione come una variante della nevrosi attuale riconducibile ad emozioni rudimentali e solo parzialmente espresse.
Somatizzazione e deficit dell’elaborazione cognitiva delle emozioni
Il concetto di nevrosi attuale e la definizione riformulata da Lipowski di somatizzazione spostano l’attenzione sulla troppo trascurata base dei sintomi somatici funzionali e sul fatto spesso dimenticato che le emozioni sono in primo luogo degli eventi biologici, mentre i sentimenti soggettivi sono una componente che si sviluppa in un secondo momento
Fa dunque parte della normale esperienza di ciascuno il fatto di percepire sensazioni somatiche che accompagnano stati di attivazione emotiva, e anche di avere momenti di disagio fisico dovuti al normale funzionamento fisiologico (ad es. borborigmi prodotti dalla peristalsi intestinale e fitte di dolore dovute alla tensione muscolare).
Mentre la maggior parte delle persone non prestano troppa attenzione a queste sensazioni corporee, ci sono individui per i quali queste rappresentano una fonte di preoccupazione. Essi le interpretano come sintomi di qualche malattia e richiedono in continuazione cure mediche nonostante venga loro assicurato che non soffrono di alcuna malattia seria (Barsky & Klerman, 1983). Tyrer (1973) ha proposto una spiegazione per queste differenze basata su una versione modificata della teoria delle emozioni di James-Lang:
- nell’esperienza emotiva normale il soggetto riconosce lo stimolo che provoca l’emozione, e che è di solito esterno. Egli percepisce le sensazioni somatiche dell’attivazione fisiologica, ma avendo già individuato la fonte dell’attivazione egli considera queste sensazioni un fenomeno secondario;
- nell’esperienza emotiva morbosa il soggetto può riconoscere lo stimolo che provoca l’emozione oppure no. Egli è particolarmente portato a confondersi se lo stimolo è interno e psichico. Se non riesce a riconoscerlo le sensazioni fisiche che egli prova non vengono comprese: egli tenderà a vederle come fenomeni primari negando gli aspetti psichici della propria condizione. Un’ulteriore esposizione allo stimolo tenderà a rinforzare l’interpretazione iniziale di questo.
Questa proposta riflette un modello di tipo informazionale dell’ elaborazione cognitiva delle emozioni e confina ovviamente con il costrutto dell’ alessitimia e con l’osservazione di Krystal (1990): i soggetti alessitimici non riescono a utilizzare le emozioni come segnali nell’elaborazione delle informazioni, ma tendono invece a focalizzarsi sulle sensazioni fisiologiche come entità in sé stesse. In questa concezione i sintomi funzionali somatici sono in relazione con gli aspetti attivanti delle emozioni e con i deficit dell’elaborazione cognitiva delle emozioni.
Anche Kellner (1985, 1987, 1990) attribuisce la maggior parte dei sintomi somatici funzionali ai cambiamenti fisiologici che accompagnano le emozioni. Egli sottolinea che i sintomi non rappresentano una conversione delle emozioni né le rimpiazzano, ma possono perfino rinforzarle. Ad esempio, i sintomi somatici che inducono ansia possono provocare ancora ulteriori sintomi somatici come conseguenze dell’attivazione del sistema nervoso autonomo (Kellner, 1986).
Siamo pienamente in accordo con Kellner (1985, 1990) quando afferma che i disturbi di conversione sono fenomeni differenti e come lui crediamo che rispettino il tradizionale schema psicoanalitico di concettualizzazione della formazione dei sintomi psiconevrotici. Alcuni pazienti presentano una combinazione di sintomi di conversione e somatizzazione: allo stesso modo Freud (1898) aveva descritto dei pazienti con una combinazione di sintomi di psiconevrosi e di nevrosi attuale.
Kellner (1985, 1987) e Sharpe e Bass (1992) sono tra i pochi teorici e ricercatori ad avere evidenziato alcuni dei meccanismi fisiologici associati con l’attivazione emotiva (specialmente con gli stati d’ansia) i quali possono produrre delle sensazioni o sintomi somatici anche in assenza di malattie specifiche:
- aumento dell’attività del sistema nervoso simpatico (tachicardia, sudorazione, contrazioni della muscolatura liscia);
- aumento della tensione della muscolatura volontaria (causa di emicranie da tensione, dolori muscolari localizzati e spossatezza) e iperventilazione (il che provoca ipocapnia, iperirritabilità dei nervi periferici associata con alcalosi e dolori al petto causati da spasmi dei muscoli intercostali).
Zalidis (1994) ha compilato un’ampia lista dei sintomi somatici causati dall’iperventilazione, che egli considera «una delle cause più comuni del prodursi di sintomi funzionali». Egli concettualizza la sindrome da iperventilazione come conseguenza di una modalità disadattativa di gestione degli affetti, e riferisce esempi di pazienti i quali hanno reagito favorevolmente ad un approccio terapeutico che combina interventi comportamentali e psicoterapeutici finalizzati ad elevare le emozioni da un livello di esperienza primitivo sensomotorio ad un livello rappresentazionale verbale.
In accordo con il legame teorico che esiste tra l’alessitimia e la somatizzazione, diversi studi hanno fornito delle prove preliminari del fatto che i soggetti alessitimici mostrano livelli tonici di attivazione del sistema nervoso simpatico superiori a quelli dei non alessitimici, oltre ad uno scollamento delle risposte cognitive e di quelle del sistema nervoso autonomo ai fattori di Stress. Esiste anche una qualche evidenza del fatto che l’espressione affettiva facciale è inversamente correlata con il livello di attivazione fisiologica in risposta ai fattori di stress. Al contrario, la comunicazione verbale del disagio affettivo (che è limitata negli individui alessitimici) riduce l’attivazione del sistema nervoso autonomo e sembra proteggere dalla formazione di sintomi somatici.
Somatizzazione e dimensioni di personalità
E’ necessario perfezionare la versione modificata da Tyrer (1973) della teoria dell’emozione di James-Lange eliminando l’idea che si possa distinguere tra persone che somatizzano e persone che non somatizzano. Consapevoli del fatto che esistono ampie variazioni individuali nella maniera di esperire e di riferire i sintomi somatici funzionali, diversi ricercatori hanno considerato opportuno concettualizzare la somatizzazione come un costrutto dimensionale, con il relativamente raro disturbo da somatizzazione del DSM-III (conosciuto anche come sindrome di Briquet) ad un estremo, mentre la maggioranza dei pazienti con disturbi da somatizzazione che si rivolgono ad un medico generico manifestano una forma subsindromica con sintomi di minore gravità.
Anche forme più leggere e transitorie di somatizzazione appartengono a questo spettro di disturbi e rappresentano spesso un tipo di reazione di aggiustamento a situazioni stressanti (Katon et al., 1991).
Kirmayer et al. (1994) propongono tre differenti costrutti dimensionali, che riflettono la loro categorizzazione dei pazienti con tendenza alla somatizzazione in tre sottogruppi:
un sottogruppo «funzionale» (con tendenza ad avere e riferire sintomi funzionali),
un sottogruppo «ipocondriaco» (con tendenza a preoccuparsi o a essere convinti di essere malati)
un sottogruppo «presentatore» (formato da individui con disturbi ansiosi o depressivi che si presentano clinicamente con sintomi prevalentemente somatici).
Date queste diverse disposizioni e la natura cronica e duratura dei disturbi da somatizzazione, diversi ricercatori hanno suggerito che la somatizzazione e l’ipocondria dovrebbero essere considerate tratti di personalità; Tali proposte sollevano questioni concernenti le relazioni che legano ipocondria e somatizzazione ad altri costrutti dimensionali e tratti di personalità, tra i quali il costrutto dell’ alessitimia.
La maggior parte delle ricerche condotte fino ad oggi si sono incentrate sul Neuroticismo (N) o sul costrutto ad esso vicino dell’ Affettività Negativa (AN) i quali, come si è visto nel capitolo 4, riflettono la tendenza ad essere soggetti a problemi sia emotivi che somatici (Costa & McCrae, 1992; Eysenck & Eysenck, 1975; Watson & Clark, 1984).
Si è visto che le misure di Neuroticimo e Affettività Negativa (AN) presentano un’alta correlazione con le misure che valutano la presenza di sintomi somatici (Costa & McCrae, 1987b), anche in quegli studi nei quali i soggetti con AN alta e bassa non differivano per quanto riguarda le condizioni oggettive di salute (Pennbaker & Watson, 1991).
Come Kirmayer et al. (1994) suggeriscono, ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i soggetti nevrotici hanno più sensazioni fisiche a causa della labilità del loro sistema nervoso autonomo e della maggiore attenzione che concentrano sul proprio corpo.
Dato che l’immaginazione e la ricettività alle sensazioni interne influenzano probabilmente il significato che ciascun individuo attribuisce alle sensazioni somatiche, ci si aspetterebbe che la più ampia dimensione di personalità di Apertura all’Esperienza (A) e il tratto più ristretto dell’immersione si trova in relazione con la suscettibilità all’ipnosi) siano in relazione con la somatizzazione.
Fino ad oggi i risultati empirici sono scarsi ed incoerenti. Mentre McCrae (1991) ha rilevato una correlazione negativa tra la scala di somatizzazione del Millon Clinical Multi-Axial Inventory, Watson (1991) e Vassend (1987) hanno riscontrato una correlazione positiva tra l’immersione e le misure dei disturbi somatici. Wickramasekera (1986, 1995) ha tuttavia scoperto che sia la bassa che l’alta ipnotizzabilità possono portare alla formazione di disturbi somatici; è interessante notare che i pazienti con tendenza alla somatizzazione con una bassa capacità di ipnotizzabilità erano quelli che presentavano minori sintomi psicologici.
È certo che la tendenza verso l’interno», che è il contrario di uno stile cognitivo orientato all’esterno (Loiselle & Dawson, 1988), è negativamente associata con il fatto che i pazienti riportino di avere sintomi somatici (Vassend, 1987).
Come abbiamo accennato l’alessitimia è correlata positivamente con N e AN e negativamente correlata con A.
Diversi studi condotti utilizzando misure dimensionali hanno dimostrato che l’alessitimia è associata positivamente anche con la somatizzazione.
Nel complesso i risultati degli studi che esaminano la relazione tra somatizzazione e altri costrutti di personalità indicano che la tendenza a sviluppare sintomi somatici inspiegabili da un punto di vista medico è associata ad una propensione ad avere affetti negativi e ad una scarsa capacità di modularli.
Questi risultati contrastano la visione psicanalitica classica in base alla quale la somatizzazione rappresenterebbe una difesa contro gli affetti dolorosi, e sono al contrario coerenti con la nostra proposta di riconcettualizzare i disturbi somatoformi (ad eccezione dei disturbi da conversione) come disturbi della regolazione affettiva.
Svariati ricercatori si sono basati sulla scoperta di un’associazione positiva tra somatizzazione e AN per mettere in questione l’idea che molti soggetti somatizzanti siano alessitimici. Simon e VonKorff (1991), ad esempio, hanno rifiutato il concetto di alessitimia dopo aver analizzato i dati risultanti dallo NIMH Epidemiologic Catchment Area (ECA) Study, il quale ha mostrato che un numero crescente di sintomi somatici funzionali era associato con il fatto che i pazienti riferivano la presenza di un disagio psicologico (in particolare tristezza, depressione, paura o ansia). Tuttavia molti altri ricercatori hanno erroneamente preso alla lettera il termine alessitimia, nel significato di «assenza di parole per i sentimenti», ed hanno frainteso il costrutto considerandolo una difesa contro gli affetti che sono fonte di disagio, come se esso fosse dunque equivalente alle vecchie concezioni della somatizzazione.
Come abbiamo affermato nei capitoli precedenti l’alessitimia è concettualizzata principalmente come un deficit e non come una difesa e non implica un’assenza di affetti o un’incapacità assoluta di riferire un qualsiasi disagio emotivo.
La definizione del costrutto sottolinea infatti la difficoltà (e non l’incapacità) di identificare e di descrivere i sentimenti (Taylor et al., 1991). Questa difficoltà cognitiva avrebbe potuto essere rilevata negli studi di ECA e di analisi del contenuto del discorso se i ricercatori avessero misurato l’estensione del vocabolario affettivo dei loro soggetti insieme alla capacità di questi di elaborare parole utilizzate spontaneamente (come triste, ansioso e depresso) e di collegare le emozioni da essi riferite con eventi interni o esterni. Come hanno affermato Nemiah e i suoi colleghi (1976), «molti soggetti alessitimici utilizzano spontaneamente parole come “triste”, “nervoso” o “spaventato”; è necessario chiedere loro di spiegare come “ci si sente” quando si è arrabbiati o nervosi. Solo allora diviene evidente che questi soggetti hanno un ridottissimo vocabolario per descrivere questi affetti o ne sono addirittura del tutto privi.
È certo che le emozioni non vengono «scaricate lungo percorsi autonomici, e neppure «trasformate» dalle rappresentazioni mentali simboliche e dall’espressione verbale. Un aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo è un correlato normale dell’attivazione emotiva la quale può contribuire, come già accennato, al manifestarsi di sintomi somatici funzionali o generare condizioni che conducono allo svilupparsi di malattie somatiche se questa attività è prolungata e non adeguatamente regolata. La rappresentazione mentale delle emozioni aiuta a modulare l’intensità e la durata degli stati emotivi dolorosi, permettendo agli individui di valutare le proprie risposte emotive agli stimoli sia interni sia esterni e di riflettere su di esse, e anche di comunicare verbalmente le proprie emozioni ad altri, i quali possono essere di aiuto nel regolarle. Esistono infatti prove del fatto che i pazienti ipocondriaci tendono a non confidare agli altri le proprie esperienze personali dolorose, riducendo così la possibilità di regolare gli affetti su una base interazionale (Barsky et al., 1994).
Queste idee sono evidenti nelle moderne teorie psicoanalitiche, che mettono in evidenza le funzioni di segnalazione, di integrazione e di comunicazione svolte dagli affetti, così come i meccanismi cognitivi coinvolti nella regolazione e nella modulazione di questi. Queste funzioni e questi meccanismi risultano menomati nei soggetti alessitimici, che sono dunque soggetti a stati disregolazione degli affetti. Ciò può produrre problemi sia fisici che psicologici; questi ultimi possono essere espressi verbalmente dai pazienti, anche se per mezzo di un vocabolario emozionale limitato. Lo stile cognitivo orientato all’esterno caratteristico dei soggetti alessitimici, in contrasto con lo stile orientato all’interno o introspettivo dei soggetti non alessitimici, causa ulteriori problemi e disregolazioni somatiche, in quanto l’attenzione è focalizzata sulle sensazioni somatiche, le quali possono essere amplificate e/o fraintese scatenando così ulteriore ansia e preoccupazioni ipocondriache.
Questa tendenza ad amplificare e fraintendere le sensazioni corporee è compresa nel concetto di amplificazione somatosensoriale, introdotto da Barski (1992) e Klerman (1983) come uno dei possibili fattori nella patogenesi della somatizzazione e dell’ipocondria.
Al fine di studiare questo concetto Barski et al. hanno sviluppato una scala d’autovalutazione, la Somatosensory Amplification Scale (SSAS) la quale ha una correlazione positiva con le misure della disforia generale e dei sintomi funzionali somatici. Wise e Mann (1994) hanno recentemente esaminato la relazione tra l’alessitimia e l’amplificazione somatosensoriale somministrando la TAS e la SSAS ad un gruppo di pazienti psichiatrici non ricoverati, la maggior parte dei quali manifestava un umore ansioso o depressivo. Anche se, tenendo conto della depressione, le correlazioni parziali rivelavano una relazione significativa tra i due costrutti esaminata separatamente per uomini e donne la correlazione parziale restava significativa solamente per le donne. Ricerche precedenti hanno tuttavia mostrato che l’amplificazione è più forte nelle donne che negli uomini (Barski & Wyshak, 1990) e che le donne sono, rispetto agli uomini, maggiormente soggette alla somatizzazione (Cloninger et al., 1986).
Anche se saranno necessarie ricerche ulteriori al fine di valutare la validità del costrutto dell’amplificazione, i risultati degli studi sperimentali suggeriscono in modo convincente che l’amplificazione somatica è dovuta all’aspettativa e all’attenzione selettiva nei confronti delle sensazioni corporee (Farthing, Venturino & Brown, 1984; Pauli et al., 1993; Schmidt et al., 1994). Alcuni risultati preliminari di studi sulle funzioni cerebrali suggeriscono che i pazienti che soffrono di disturbi da somatizzazione hanno più difficoltà, rispetto ai soggetti normali, nel dividere efficacemente la propria attenzione tra input sensoriali rilevanti e irrilevanti (James et al., 1987).
Illustrazioni cliniche
I seguenti casi illustrano alcune delle manifestazioni cliniche dei pazienti con tendenza alla somatizzazione descritte nei paragrafi precedenti, così come la natura dimensionale del costrutto della somatizzazione e la sua associazione con l’alessitimia.
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Caso I
Peter aveva sofferto di svariati sintomi somatici per 8 anni. All’inizio, all’età di 31 anni, aveva avuto dolori alla regione epigastrica; questi si erano poi gradualmente allargati ad altre parti dell’addome e si accompagnavano in seguito con sensazioni sgradevoli in tutto il corpo. In un’occasione egli aveva presentato un
Episodio di melena e gli era stata diagnosticata e curata un’ ulcera duodenale. Con il persistere dei dolori addominali, fu diagnosticata una sindrome del colon irritabile. In aggiunta ai suoi sintomi addominali Peter accusava vertigini, dolore agli occhi, orecchie che fischiavano e una sensazione costante di pressione nella testa. A causa dei sintomi fisici sgradevoli e diffusi dai quali era quotidianamente afflitto, Peter aveva sviluppato una preoccupazione ipocondriaca di essere affetto da una qualche malattia grave. Egli aveva consultato molti medici e chirurghi ed era stato sottoposto a numerose analisi, ma alla fine gli era stato detto che il suo era un problema «psicologico», e che egli avrebbe dovuto sottoporsi ad un trattamento psichiatrico.
Nel corso di un’intervista psichiatrica Peter mostrava un viso piuttosto piatto e inespressivo, mostrava difficoltà ad identificare ed elaborare i propri sentimenti e affermò di avere raramente delle fantasie e di non ricordarsi affatto dei propri sogni. Quando gli fu chiesto di parlare degli eventi della sua vita che lo avevano sconvolto, egli riconobbe di essere stato depresso e di aver avuto difficoltà a dormire nell’anno successivo alla morte di sua moglie, affetta da un cancro. Egli aggiunse tuttavia che i propri sintomi somatici avevano preceduto di alcuni anni il manifestarsi della malattia della moglie. In risposta ad ulteriori domande sul suo umore, Peter rispose semplicemente che gli piaceva ascoltare la musica a tutto volume.
Anche se questo paziente non corrispondeva pienamente ai criteri del DSM-IIIR o del DSM-IV per una diagnosi di disturbo da somatizzazione, lo schema e la natura cronica dei suoi sintomi, e il ricorso eccessivo del paziente alle cure mediche, indicavano la presenza di una forma subsindromica del disturbo. In accordo con la mancanza di sintomi vegetativi, a parte qualche disturbo del sonno, il paziente mostrava un livello di depressione da debole a moderato sul Beck Depression Inventory (BDI). Sulla TAS-20, tuttavia, egli ottenne un punteggio di 80, il che confermava l’impressione clinica di una marcata alessitimia.
Caso II
Nick, un musicista di 28 anni, voleva sottoporsi ad un trattamento psichiatrico a causa di tre sintomi principali: dubbi ossessivi circa le sue capacità come musicista, una preoccupazione costante per il proprio aspetto fisico e la paura di essere afflitto da una malattia grave. Per diversi anni egli aveva combattuto con il pensiero persistente e invadente che qualcosa non andava nel suo modo di suonare il violoncello; passava spesso diverse ore al giorno ascoltando e riascoltando le registrazioni delle sue esecuzioni, cercando di capire se c’era effettivamente un difetto grave o se stava solamente immaginandoselo. Oltre a ciò Nick era eccessivamente preoccupato dell’aspetto del suo viso; si guardava continuamente allo specchio, si confrontava con altri uomini e pensava di essere fisicamente sgradevole e privo di attrattiva per le donne. Il terzo problema di Nick era una costante preoccupazione riguardo alle sensazioni corporee e ai sintomi fisici, ed il sospetto di avere una malattia grave che i medici non riuscivano a diagnosticare. Prima di cominciare a sviluppare dei dubbi ossessivi sul suo modo di suonare il violoncello egli aveva temuto di essere affetto da sclerosi multipla. Per circa due o tre anni Nick si era lamentato di debolezza delle braccia e delle dita, aveva consultato svariati neurologi ti e altri specialisti e si era sottoposto a numerose analisi. Nonostante tutti i risultati fossero negativi egli non riusciva a convincersi di non essere affetto da una malattia neurologica. I suoi sintomi di debolezza muscolare e il suo timore di essere afflitto da sclerosi multipla furono alla fine sostituiti da diversi altri gravi sintomi fisici quali nausea, dolori addominali o inguinali. emicranie croniche, dolori al petto e minzione frequente. La sua reazione a questi sintomi era inevitabilmente il timore di avere un cancro o una malattia cardiovascolare, ed egli si recava immediatamente dal proprio medico di famiglia o al pronto soccorso di un ospedale locale. Svariate volte in seguito a queste visite venivano effettuate ricerche ulteriori, a volte anche molto approfondite; nonostante i risultati fossero sempre negativi Nick non riusciva a rassicurarsi.
La sintomatologia somatica ossessiva, ipocondriaca e funzionale di questo paziente riflette la non rara sovrapposizione tra ansia e disturbi somatoformi. Nick soddisfaceva i criteri del DSM-N per il disturbo da somatizzazione, il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo somatico dismorfico (dismorfofobia) e l’ipocondria. I suoi medici formularono anche una diagnosi di sindrome del colon irritabile. Anche se il manifestarsi di questi disturbi era stato successivo alla morte di sua madre a causa di un attacco cardiaco Nick riferì di essere stato piuttosto ipocondriaco anche nell’infanzia e l’adolescenza, e di avere sempre cercato rassicurazioni da sua madre, che era medico.
Nel corso delle interviste psichiatriche Nick descriveva il disagio psicologico al quale era sottoposto quando riteneva che il pezzo che aveva appena eseguito «suonasse male» o quando una donna per la quale provava attrazione non mostrava alcun interesse nei suoi confronti. Tuttavia questo disagio era sovente espresso attraverso il comportamento, colpendosi la testa con i pugni o litigando con suo padre o con i suoi amici. Certe esperienze quotidiane, come l’esperire brevi separazioni o il subire leggere critiche erano spesso seguite dal manifestarsi di sintomi somatici e dal ricorso a cure mediche. Nick mostrava inoltre una totale assenza di vita di fantasia, un’incapacità di ricordare i propri sogni e una marcata tendenza a dover comunicare i dettagli dei suoi sintomi fisici o delle sue preoccupazioni ossessive. Era evidente che egli focalizzava la propria attenzione sui corrispettivi somatici degli stati emotivi, amplificandoli e interpretandoli erroneamente come sintomi di una qualche malattia. Coerentemente con queste osservazioni cliniche il punteggio di Nick sulla TAS 20 si trovava all’interno dei valori alessitimici, e quello su una misura del Neuroticismo era estremamente alto; egli mostrava inoltre sul BDI un grado moderato di depressione. Una terapia a base di farmaci inibitori della ricattura della serotonina ridusse solo parzialmente i suoi sintomi e le sue preoccupazioni somatiche, ma il miglioramento fu progressivo quando questi furono combinati con degli interventi psicoterapeutici modificati, del tipo descritto nel capitolo 11.
Studi empirici sull’alessitimia e la somatizzazione
Uno dei primi studi empirici sull’alessitimia e la somatizzazione in lilla popolazione clinica fu condotto da Shipko (1982), il quale somministrò la Schalling-Sifneos Personality Scale (SSPS) ad un gruppo di 12 pazienti con tendenza alla somatizzazione (4 dei quali presentavano un disturbo psicosomatico classico concorrente), ad un gruppo di controllo composto da 27 soggetti sani e ad un gruppo di 15 soggetti che avevano nella loro vita sofferto di uno o più dei sette disturbi psicosomatici classici. Questa ricerca evidenziò che il gruppo di pazienti con tendenza alla somatizzazione era significativamente più alessitimico degli altri due gruppi. Anche se questi risultati fornivano una qualche evidenza preliminare in favore dell’esistenza di un’associazione tra alessitimia e somatizzazione, la ricerca era limitata dalle scarse proprietà psicometriche della SSPS (vedi capitolo 3), dall’assenza di appaiamento dei tre gruppi rispetto alle variabili sociodemografiche e da una possibile distorsione nella selezione del campione.
Estendendo le nostre ricerche con la TAS ad una popolazione clinica abbiamo indagato la relazione che esiste tra l’alessitimia e le lamentele somatiche in un gruppo etnicamente eterogeneo di 118 pazienti che facevano riferimento al dipartimento psichiatrico ambulatoriale di un grande ospedale di Honolulu, Hawaii (Taylor et al., 1992b). La maggior parte dei pazienti soffriva di disturbi ansiosi, depressivi o da adattamento; a nessuno dei pazienti era stato diagnosticato un disturbo somatoforme. Quasi il 40% del gruppo totalizzò un punteggio che rientrava nella gamma di valori dell’alessitimia. In confronto ai pazienti non alessitimici, quelli alessitimici si lamentavano con una frequenza significativamente più elevata di disturbi somatici, in base alle misure effettuate con le seguenti scale dell’MMPI: ipocondria, la sottoscala delle lamentele somatiche, la sottoscala delle preoccupazioni somatiche, la scala della salute e la scala dei contenuti di Wiggins dei sintomi organici e della salute.
Oltre a ciò i pazienti alessitimici avevano livelli significativamente più elevati di ansia, depressione e agitazione psicologica generale. In accordo con il costrutto i pazienti alessitimici avevano anche un io più fragile rispetto ai non alessitimici, ed erano maggiormente dipendenti e più propensi ad adottare comportamenti impulsivi e acting out.
Lo schema generale dei risultati è coerente con l’idea che i pazienti alessitimici siano più facilmente soggetti ad avere sintomi somatici funzionali e sintomi di agitazione emotiva in quanto mancano delle capacità psicologiche necessarie per poter modulare le emozioni.
In un recente studio condotto in Austria su 45 pazienti psichiatrici ricoverati Bach et al. (1994) hanno osservato che i pazienti alessitimici e non alessitimici non differiscono significativamente per punteggi sulla sottoscala della somatizzazione del SCL-90R e neppure per quanto riguarda la loro storia attuale o passata di disturbi somatoformi
Tutti i pazienti di questo studio soddisfacevano tuttavia i criteri per il disturbo da ansia e, coerentemente con il costrutto, i pazienti alessitimici mostravano livelli più elevati di agitazione psicologica e di psicopatologia generale. Inoltre, in un successivo studio di follow-up l’alessitimia risultò essere un predittore significativo di somatizzazioni persistenti e di esito terapeutico insoddisfacente, indipendentemente dagli altri tipi di psicopatologia, dalla gravità della malattia e dalle variabili sociodemografiche (Bach & Bach, 1995).
È anche possibile che una relazione tra alessitimia e somatizzazione possa essere dimostrata più efficacemente nelle popolazioni cliniche evitando le categorie diagnostiche somatoformi ed i punteggi soglia per l’alessitimia, e considerando invece la somatizzazione e l’alessitimia come costrutti dimensionali, come era stato fatto negli studi sugli studenti universitari e sulle popolazioni non cliniche precedentemente passati in rassegna. Infatti, in uno studio separato condotto su pazienti psichiatrici ricoverati, Bach et al. (1996) hanno riscontrato una significativa correlazione statistica positiva tra la TAS20 e la scala della somatizzazione dell’SCL-90R. In un altro recente studio clinico Cohen et al. (1994) non hanno rilevato alcuna differenza significativa nei punteggi dell’alessitimia tra gruppi di pazienti con tendenza alla somatizzazione, di pazienti psichiatrici e di pazienti con problemi dentari; in un’analisi a regressione multipla, tuttavia, l’alessitimia (misurata mediante la TAS) era predetta in modo significativo da svariate misure della tendenza ad esperire e riferire sintomi somatici.
Somatizzazione e dolori cronici
I dolori per i quali non è possibile trovare un’adeguata causa organica sono uno dei sintomi più comuni dei pazienti con tendenza alla somatizzazione. Quando il dolore è il punto centrale della presentazione clinica ed è stato presente per almeno sei mesi viene di solito formulata una diagnosi di disturbo da dolore somatoforme (DSM-III-R).
Per molti anni la concettualizzazione dei dolori cronici inesplicabili da un punto di vista medico era stata influenzata dall’idea di Engel (1959) che i pazienti soggetti a dolori combattano contro sensi di colpa e conflitti inconsci legati ad impulsi sessuali di natura aggressiva e proibita. Engel attribuiva questi conflitti a carenze dell’ambiente familiare nell’infanzia del soggetto, quali la presenza di un genitore malato e i traumi causati da abusi emotivi, verbali o fisici. Anche se la presenza o l’assenza di conflitti non è stata valutata, ricerche seguenti hanno fornito un supporto empirico all’ipotesi di un’associazione tra disturbi da dolore psicogeno ed esperienze infantili traumatiche (Adler et al., 1989).
Anche se l’esperienza clinica conferma che i conflitti intrapsichici possono, attraverso il meccanismo della conversione, originare dei dolori cronici (ossia dolori psicogeni), il dolore potrebbe anche essere una manifestazione diretta di emozioni non regolate, e dunque un sintomo di somatizzazione. Molti studi hanno mostrato una forte incidenza di ansia e depressione, così come di sintomi di somatizzazione, nelle popolazioni di pazienti affetti da dolori cronici (Bacon e al., 1994; Iezzi e al., 1994).
Esiste tuttavia una notevole controversia relativa alla questione se la componente affettiva sia una conseguenza dell’impatto del dolore cronico sull’umore di una persona o al contrario un fattore che predispone allo sviluppo del dolore cronico (Gaskin e al., 1992; Turk & Salovey, 1984). Blumer e Heilbronn (1982), ad esempio, considerano il dolore cronico una variante specifica della sindrome depressiva e consigliano un trattamento a base di farmaci antidepressivi. Altri ricercatori, tuttavia, osservano che molti pazienti afflitti da dolori cronici non traggono alcun beneficio dalla somministrazione di antidepressivi (Merskey, 1982; Roy, Thomas & Matas, 1984), e che quando la depressione è presente questa si è spesso manifestata dopo l’inizio dei dolori (Bacon et al., 1994).
Una possibile soluzione della controversia è rappresentata dall’ ipotesi di Swanson (1984):
dolore cronico è una terza emozione patologica, separata ma strettamente interrelata con l’ansia e la depressione. Riconoscendo che i moderni teorici del dolore considerano il dolore uno nato affettivo anormale e non un’esperienza percettiva primaria, Swanson avanza l’ipotesi che il dolore cronico, come l’ansia e gli stati depressivi, abbia i propri correlati neurochimici nei centri integrativi del cervello. Tenderemmo quindi ad affermare che il dolore cronico può essere considerato come un affetto-segnale, dotato di una funzione protettiva comparabile a quella dell’ansia-segnale e della depressione-segnale, le quali saranno descritte nel capitolo seguente.
Sia che il dolore cronico debba essere considerato una terza emozione patologica, una variante della depressione o una causa di stati affettivi negativi, in tutti e tre i casi crediamo che esso possa essere incluso nella nostra categoria generale di disturbo della regolazione degli affetti. Ci si trova di fronte ad un circuito di feedback reciproco, in cui l’ansia e la depressione causano il dolore, aumentando la sensibilità al dolore ad abbassando la soglia di tolleranza. Il dolore rappresenta un fattore di stress che suscita a sua volta ansia e depressione (Beutler et al., 1986; Gaskin e al., 1992). Questa disregolazione può essere presa in considerazione quando il paziente è alessitimico e anedonico, il che, secondo l’esperienza di alcuni clinici (ad es. Illuiner & Heilbronn, 1982), si osserva comunemente tra i pazienti affetti da dolori cronici.
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